Lui mi guarda e fa: "Allora cosa dici, partenza alle 18.00? Sai, il Comunale, la viabilità cambiata per le Olimpiadi invernali, chissà che casino i parcheggi".
Il Lapo che c'è in me si illumina a festa e molla il carico da undici: "Mah, domani c'è anche il primo grande contro-esodo per le vacanze. Meglio fare alle 17.30".
Quando mi rendo conto che quello che stiamo facendo è un viaggio per pochi intimi, siamo praticamente ad Asti. Per forza, cazzo, i sabaudi che rientrano dal mare si fanno la Torino-Savona, mica passano dalla Cina. Morale: quando arriviamo nei pressi dello stadio è talmente presto che sembriamo più in ritardo per l'ultima del campionato scorso che in anticipo per la prima di questo. Anche il parcheggio, ironia della sorte, me lo ritrovo servito su un piatto d'argento a due isolati dalla Tribuna Ovest. Roba da predestinati.
Non so cosa pensare. L'ultima volta che sono stato qui era il 1986, Juve-Real Madrid di Coppa dei Campioni. Ingresso alle 17.30, supplementari, rigori e fuori dallo stadio che era quasi mezzanotte. Davanti a noi - perché anche allora, come oggi, insieme a me c'era lo stesso compagno di avventura - un gruppo di cinque soggetti indescrivibili arrivati da Caserta su una 127 Diesel. Il più brutto dei cinque - non lo scorderò mai - , quando Hugo Sanchez si avvicinò al dischetto per calciare il primo rigore, si voltò e mi gelò: "Sanchez lo sbaglia". Aveva meno denti in bocca che speranze di vincere Mister Universo e una bandiera della Juve in testa a mo' di foulard. Quando Tacconi parò il rigore, mi saltò addosso abbracciandomi come un pazzo e io, gobbo sì ma pur sempre comandato dall'umano istinto di sopravvivenza, pregai il Dio delle infezioni virali che il Real non ne sbagliasse più. In effetti fu l'unica volta che qualcosa di soprannaturale ebbe la compiacenza di ascoltarmi. Eliminati agli ottavi.
Per me che, da abbonato, ho spento la luce dopo la domenica del ventottesimo al Delle Alpi, essere qui di nuovo, dopo tutto quello che è successo, è un miscuglio di sensazioni che non so nemmeno io che cosa siano. Figuriamoci a spiegarle.
Dentro sembra di essere a Gardaland. La mascotte di Del Piero, quella di Trezeguet, bambini ovunque e un tasso di gnocca, con o senza la pettorina da steward, decisamente preferibile al tipo di Caserta. Quando inizia la partita non mi serve certo l'archivio Rai per capire quanto Poulsen, Tiago, Grygera e compagnia siano diversi da Zidane, Deschamps, Gentile e così via. Ma alla gobbite non si comanda, la gobbite non si debella, e così le larve che
Unto-man deve avermi messo nel panino salsiccia e senape al chiosco di Corso Agnelli si trasformano di botto in farfalle, cominciando a svolazzarmi nello stomaco come fosse la prima volta.
Dopo un po' facciamo gol. Penso che Diego è forte, molto forte. E che Cannavaro - almeno "questo" Cannavaro, checché ne dicano i tifosi che "Minchia l'onore, il Capitano, Pavelnedved e Gigisaltaconnòi - è meglio averlo che non averlo. Finché i nostri hanno birra in corpo, poi, anche l'idea che uno come Ciro Ferrara possa aver trasmesso qualcosa di sensato a tutti, specie dopo la desertificazione del pianeta bianconero degli ultimi tre anni, mi sembra plausibile. Il Lapo che c'è in me si rifà vivo. Vuoi vedere - mi dico - che stiamo provando a ritrovare la strada? Il mio amico deve avere avere un sesto senso, o forse è solo che, conoscendomi da sempre, non ha bisogno di sentirmi dire una stronzata per capire che la sto pensando, così mi dà di gomito: "Guarda là".
In curva Scirea, si distende uno striscione: "
Spendendo si vince. Grazie John Elkann, uno di noi".
Guardo il mio amico, e insieme guardiamo la curva nord che, senza esitazioni, fischia Cannavaro ogni volta che tocca il pallone.
"Uno di voi", prego. Speriamo che il nuovo stadio sia pronto in fretta. Una sua presenza, di John intendo, ogni tanto la si potrebbe anche sopportare. In fondo si tratterebbe pur sempre del padrone di casa.
Ma della vostra, chissà che non si riesca a farne a meno una volta per tutte.
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