Dopo l'accoppiamento di Juventus e Real Madrid nel girone inaugurale della Champions League 2008/2009, Zinedine Zidane, dalle colonne de La Stampa, è tornato a parlare di emozioni passate e future sul legame che ne ha condizionato la carriera durante il decennio 1996/2006.
Zizou è uno di quei personaggi al quale non riesco a negare una buona dose di indulgenza nonostante tutto, talmente grande è stato il tasso di goduria che le sue giocate mi hanno regalato lungo quegli anni mostruosi (per gli altri).
Ecco perché, nonostante la sua preferenza nella classifica delle emozioni penda a favore delle merengues, nei suoi confronti non riesco a ragionare da amante tradito come un ultras d'accatto qualsiasi, tipo quel fine e sublime pensatore che ebbi la sventura di incontrare diciassette anni fa al ritiro di Vipiteno: "Minchia Baggio è un violabbastàrdo, non come Casiraghi che invece è un gobbo vero che a Barcellona ha segnato e minchia ha baciato la maglia". Minchia.
Però al cuore non si comanda in tutti i sensi, pertanto mi piace ricordare che non è affatto un caso se le vette più alte della sua carriera, cioè il mondiale e il pallone d'oro del 1998 e l'europeo del 2000, Zizou le ha raggiunte quando a impreziosire le sue spalle c'era sì una casacca bianca come una meringa, ma con in più l'eleganza di quelle strisce nere grazie alle quali qualsiasi straccio senza significato può trasformarsi nella bandiera più bella del mondo.
Certamente il gol che consegnò al Real Madrid la Champions League nella notte di Glasgow 2002, oltre a coronare il suo sogno di afferrare l'unico trofeo importante che ancora gli mancava, rimarrà per sempre una delle cose più belle mai viste su un campo di calcio. Però va anche ricordato come quella squadra, al contrario della Juventus puzzona della Triade che viaggiava in prima classe pagandosi il biglietto sempre di tasca propria, e senza mai dovere nulla a nessuno, era figlia della politica faraonica e sfondata della Casa Reale, nonostante il goffo tentativo messo in scena in quegli anni di comunicare un nuovo modo di pensare il calcio, in maniera più ragionata e meno sprecona. Quello de los Zidanes y Pavones, per intenderci.
Quello che avrebbe dovuto, nelle intenzioni degli spagnoli, coniugare i grandissimi campioni internazionali con i giovani e talentuosi prodotti autoctoni del vivaio.
Vedremo se oggi, a distanza di qualche anno da quel periodo, e con i destini delle due formazioni stravolti e ridisegnati dalla storia (ah no, forse soltanto uno dei due, b.i.d.c.s. - battuta idiota di chi scrive), avrà la meglio l'ostinazione dei madridisti nel collezionare fuoriclasse o la nuova era della Juventus, tutta sorrisi e complimenti agli avversari.
Perché anche a Torino si è cambiato registro dando vita a un modo nuovo di pensare il calcio, e proprio grazie a una politica in grado di miscelare il vecchio con il nuovo.
Quella de los calciopoléros y cogliones.
Zizou è uno di quei personaggi al quale non riesco a negare una buona dose di indulgenza nonostante tutto, talmente grande è stato il tasso di goduria che le sue giocate mi hanno regalato lungo quegli anni mostruosi (per gli altri).
Ecco perché, nonostante la sua preferenza nella classifica delle emozioni penda a favore delle merengues, nei suoi confronti non riesco a ragionare da amante tradito come un ultras d'accatto qualsiasi, tipo quel fine e sublime pensatore che ebbi la sventura di incontrare diciassette anni fa al ritiro di Vipiteno: "Minchia Baggio è un violabbastàrdo, non come Casiraghi che invece è un gobbo vero che a Barcellona ha segnato e minchia ha baciato la maglia". Minchia.
Però al cuore non si comanda in tutti i sensi, pertanto mi piace ricordare che non è affatto un caso se le vette più alte della sua carriera, cioè il mondiale e il pallone d'oro del 1998 e l'europeo del 2000, Zizou le ha raggiunte quando a impreziosire le sue spalle c'era sì una casacca bianca come una meringa, ma con in più l'eleganza di quelle strisce nere grazie alle quali qualsiasi straccio senza significato può trasformarsi nella bandiera più bella del mondo.
Certamente il gol che consegnò al Real Madrid la Champions League nella notte di Glasgow 2002, oltre a coronare il suo sogno di afferrare l'unico trofeo importante che ancora gli mancava, rimarrà per sempre una delle cose più belle mai viste su un campo di calcio. Però va anche ricordato come quella squadra, al contrario della Juventus puzzona della Triade che viaggiava in prima classe pagandosi il biglietto sempre di tasca propria, e senza mai dovere nulla a nessuno, era figlia della politica faraonica e sfondata della Casa Reale, nonostante il goffo tentativo messo in scena in quegli anni di comunicare un nuovo modo di pensare il calcio, in maniera più ragionata e meno sprecona. Quello de los Zidanes y Pavones, per intenderci.
Quello che avrebbe dovuto, nelle intenzioni degli spagnoli, coniugare i grandissimi campioni internazionali con i giovani e talentuosi prodotti autoctoni del vivaio.
Vedremo se oggi, a distanza di qualche anno da quel periodo, e con i destini delle due formazioni stravolti e ridisegnati dalla storia (ah no, forse soltanto uno dei due, b.i.d.c.s. - battuta idiota di chi scrive), avrà la meglio l'ostinazione dei madridisti nel collezionare fuoriclasse o la nuova era della Juventus, tutta sorrisi e complimenti agli avversari.
Perché anche a Torino si è cambiato registro dando vita a un modo nuovo di pensare il calcio, e proprio grazie a una politica in grado di miscelare il vecchio con il nuovo.
Quella de los calciopoléros y cogliones.
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