giovedì 24 luglio 2008

Il diritto di che cosa?


Ieri, al termine dell'edizione del TG5 delle ore 13, Fabrizio Summonte ha letto questo comunicato del sindacato unitario dei giornalisti italiani:

"Il nostro diritto di informare è la vostra libertà di sapere. È la possibilità che abbiamo di difendervi dalle truffe e dalle cliniche degli orrori, da imbrogli grandi e piccoli, dalla malapolitica fatta di interessi e clientele, da chi vi ruba persino le emozioni truccando o condizionando i risultati sportivi. Dovremmo tacere anche su “calciopoli”, in futuro, se venisse approvato il disegno di legge del ministro della Giustizia. La tutela della riservatezza è un valore anche per noi giornalisti, ma non può essere usata come pretesto per bloccare l’informazione giudiziaria. La Federazione Nazionale della Stampa giudica il disegno di legge sulle intercettazioni un autentico bavaglio. Le norme proposte affievoliscono il diritto-dovere di informare e travolgono il diritto dei cittadini a sapere. Facciamo sindacato insieme, diciamo no alla legge-bavaglio".

Avreste dovuto sentirlo, e vederlo, con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così che abbiamo noi che abbiamo visto Merola.
Sembrano aver scoperto l'acqua calda, i giornalisti, ora che un ministro oltremodo intraprendente ha deciso di piombare il Luna Park. Perché troppe volte di giostra si è trattato, più che di "diritto di informare e libertà di sapere".
Senza buttarla in politica, chiariamo subito una cosa: sul fatto che il mezzo delle intercettazioni telefoniche possa svolgere un ruolo vitale per la riuscita di certe inchieste giudiziarie, non ci piove. Dove piove invece, anzi diluvia, è nell'uso improprio che, negli anni, i giornali e le televisioni ne hanno fatto; non limitandosi allo sputtanamento del Lucignolo di turno, ma troppo spesso avendo accesso anche al privé dei Mangiafuoco che dovrebbero custodire le carte, senza che mai - e sottolineo: mai - le guardie siano state capaci di punire gli uni e/o gli altri per quegli spifferi proibiti.
Calciopoli, che in Italia sembra avere assunto il titolo di Comandamento del Male al pari di truffe, mafia, malapolitica, malasanità e chi più ne ha più ne metta, è il filo conduttore del lavoro che svolgiamo da due anni. Un lavoro grazie al quale quel comunicato suona, per noi, ridicolo e provocatorio, giacché pensato e divulgato da persone abituate non a scrivere per raccontare, ma a raccontare per continuare a scrivere. La differenza tra essere servitori o servi.
Sarebbe bello sapere se chi "ruba persino le emozioni truccando o condizionando i risultati sportivi" sono, secondo il sindacato unitario, i corridori tanto cari a al "Candido ma non troppo" giornalista del purgante in carta rosa, o piuttosto la Juventus che si è salvata dall'accusa di doping fortunosamente e solo grazie alla prescrizione del reato, come affermato dalla viscida Alba Maiolini giovedì scorso, su Italia 1, in un servizio da querela (a proposito: i soliti doverosi complimenti alla Compagnia di Corso Galfer per non aver fiatato, ingoiando l'ennesimo boccale di guano).
E che dire del rischio di dover tacere "anche su calciopoli in futuro"?
Mi chiedo: quando mai se n'è parlato, di calciopoli? Forse qualcuno lo ha mai fatto con l'intento di "difenderci dalle truffe, per la nostra libertà di sapere"?
C'è stato chi ha preteso di scriverci dei libri, su calciopoli, senza neppure preoccuparsi di sapere cosa fosse contenuto nei Vangeli che l'hanno ispirata prima e decretata poi. Quale calciopoli rischieremmo di dover vedere taciuta, da domani, anziché sottaciuta come è stato fino a oggi?
Forse quella delle famose intercettazioni, l'unica esistita ed esistente; intercettazioni che, se non sono state sufficienti per trovare un solo rivolo di sangue sulle mani dei presunti assassini, certamente sono bastate e avanzate per distruggere il passato, il presente e il futuro di una manciata di persone, insieme a quello di qualche milione di spettatori inermi.
Ci sono uomini che grazie alla totale assenza di quel bavaglio, che oggi i giornalisti temono di vedersi annodare attorno alla bocca, hanno visto polverizzarsi la propria famiglia, le proprie amicizie, la propria dignità.
Se il prezzo da pagare per mettere un freno all'inciviltà di quelle azioni dev'essere il silenzio, ben venga. Via il volume, e così sia.
Proprio a pochi giorni dalla chiusura dell'inchiesta sullo scandalo Telecom, dove pare che a tirare i fili del più grande inganno della storia recente fosse un solo uomo (vi ricorda nulla?), l'idea di togliere dal buffet dei media le glorificate intercettazioni telefoniche, mette già i crampi allo stomaco dei troppo bene abituati gourmet della disinformazione.
In un paese normale gli avvenimenti di questi anni sarebbero stati, paradossalmente, una manna per tutti. Un'occasione per crescere, per migliorare, per non dimenticare. Per non ripetere gli stessi errori, soprattutto.
Qui no. In questo paese che di normale non riesce più ad avere nulla, se non la propria anormalità, sono stati l'ennesima occasione persa. Perché dai salici non può nascere l'uva, recita un vecchio detto popolare.
Un esempio su tutti? La giornalista che affiancava Fabrizio Summonte in studio all'edizione del TG5 delle ore 13, proprio mentre lui leggeva quello struggente comunicato. Proprio mentre tutti quanti i giornalisti, idealmente, reclamavano a gran voce "il diritto-dovere di informare e il diritto dei cittadini di sapere".

Quella giornalista era Chiara Geronzi, la figlia di Cesare. Informatevi.


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