venerdì 29 febbraio 2008

Excusatio non petita.


Il nuovo, pulito e integerrimo presidente della FIGC Giancarlo Abete, quando scoppiò calciopoli, era vice-presidente della stessa FIGC: già questo dato, sempre ignorato da chi straparla e strascrive di nuova epoca del pallone, sarebbe sufficiente per chiudere qui il post e andare a verniciare le pareti delle piramidi d'Egitto con interminabili scariche di dissenteria.
No, non ho nulla contro i discendenti di Tutankhamon: è solo per dare l'idea di una superficie parecchio estesa. E' per dare l'idea di quanto incontenibili siano diventati gli effetti della gastrite che le parole di tutti i teatranti (autoproclamatisi salvatori-moralizzatori-rinnovatori-risolutori) hanno causato, fin da subito, ai tifosi non tele-radio-stampa rimbecilliti, rendendola (la gastrite) colpevolmente cronica.
Rispondendo alla lettera ricevuta dalla coppia d'assi Cobolli-Blanc, il presidente vergine Abete si è detto sicuro del fatto che "il campionato sia senza alcun dubbio regolare". A voler essere maliziosi, potremmo far notare che nella missiva col sorriso inviata da CoboCric & BlanCroc, non si chiedeva alcun parere sulla regolarità del campionato in corso. Purtroppo.
Infatti, il campionato, regolare non lo è per nulla, e già da un bel pezzo. Ci sono almeno quattro squadre di troppo (almeno fra le big, o presunte tali: Inter, Roma, Lazio e Parma) le quali, ognuna a suo modo e per ragioni diverse, occupano abusivamente la massima serie, in barba ai regolamenti che ne determinano (o ne avrebbero determinato poco tempo fa) il diritto all'iscrizione dal punto di vista degli equilibri economico-finanziari.
Quello di Abete appare come un curioso incrocio tra il classico lapsus freudiano e la tipica excusatio non petita.
Se davvero i due gendarmi della nuova Juventus sterilizzata in autoclave dal rinnovamento del maggio 2006 avessero voluto essere rivoluzionari , con o senza lo smile d'ordinanza, non avrebbero dovuto far altro che riprendere il discorso dal punto in cui lo aveva lasciato, forzatamente, l'ex amministratore delegato Antonio Giraudo.
Per una società che non perde occasione di rimarcare come, da un paio d'anni, la trasparenza e i valori etici e sportivi siano diventati l'unico vero faro con il quale illuminare il percorso che porta verso un futuro migliore, dovrebbe essere prioritaria la pretesa di competere con avversari altrettanto privi di ombre e contraddizioni.
Nonostante le ombre e le contraddizioni, invece, esistano in misura macroscopica (e di certo i segnali non mancano, così come non mancavano già quando a lamentarsene erano le invettive di Giraudo contro il doping amministrativo), questo terreno continua a rimanere un autentico tabù, più dell'uso del profilattico per la Santa Sede.
Per quanto suggestivo possa apparire lo sbattere i pugni sul tavolo per un arbitraggio da terza categoria (o due, o tre, o cento), credo che dovrebbe essere buona norma, per qualsiasi amministratore o manager di un patrimonio come la Juventus, cercare di vedere l'orizzonte del proprio itinerario (ammesso che si sappia dove si è diretti) un po' più in là del cofano della macchina sulla quale si sta viaggiando.
Se l'unico imperativo dev'essere quello di salvare il giocattolo (prima rinunciando ad un ricorso al Tar pressoché inattaccabile - quindi letale per il movimento -, oggi accettando di chiudere occhi e orecchie davanti alle magie di chi pretende di entrare al cinema senza biglietto e si siede pure in prima fila, con in testa un cilindro alto un metro), così sia.
Con due distinguo, però: il primo, irrilevante, è che a me di un giocattolo così non importa un fico secco. Tenetevelo.
Il secondo, è che certi discorsi su un gruppo di dirigenti troppo bravi per poter essere lasciati al loro posto, appaiono sempre meno bislacchi.

Anche perché, dati alla mano, il campionato - questo campionato - è molto meno regolare (regolare nel senso che intende Abete) di quando si vinceva rubando, altro che illecito strutturato.

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